Siamo tante cose: siamo uomini e donne, siamo padri e madri, siamo lettori e scrittori, siamo viaggiatori e scienziati, e in maniera spesso del tutto inconscia, siamo anche traduttori, tutti noi. La traduzione, in realtà, è un processo che ci appartiene sin dalla nascita e che ci accompagna in qualsiasi attività quotidiana: quando leggiamo una frase, guardiamo un cartello stradale che ci intima di dare precedenza, ascoltiamo le parole di un amico, o quelle del TG la sera. In un suo famoso saggio dal titolo “Traducción: literatura y literalidad”, Octavio Paz, poeta, saggista e Premio Nobel messicano, scrisse:

“Imparare a parlare è imparare a tradurre: quando il bambino chiede alla madre il significato di questa o di quella parola, ciò che le sta chiedendo realmente è di tradurre nel suo linguaggio il termine a lui sconosciuto. In questo senso, la traduzione all’interno di una stessa lingua non differisce in modo sostanziale dalla traduzione tra due lingue diverse e la storia di tutti i popoli tende a ripetere l’esperienza infantile: persino la tribù più isolata deve confrontarsi, prima o poi, con il linguaggio di una popolazione straniera”. *

Un linguaggio, indipendentemente dalla sua natura – che sia una lingua scritta o parlata, un linguaggio dei segni, i segnali stradali, le icone del computer – essenzialmente si basa su una serie di collegamenti tra significante e significato. Per dirla semplicemente, il significato è il contenuto di una parola, ciò che quella parola esprime o indica; il significante è la parola stessa. Il collegamento tra un significante e un significato, nel caso delle lingue, è del tutto arbitrario e convenzionale, vale a dire che non esistono regole precise per cui un tavolo si chiama “tavolo” o una finestra si chiama “finestra”. Siamo stati noi umani, nel corso del tempo, a decidere di attribuire determinati nomi a specifici oggetti, sensazioni e idee, e siamo stati liberissimi di farlo, tanto che gli inglesi o i francesi, i russi o i cinesi, hanno scelto di ricorrere a parole differenti. Ma un tavolo, inteso come oggetto, resta pur sempre un tavolo.

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Ne parlò in questi termini Ferdinand De Saussure, croce e delizia di ogni studente che abbia, almeno lontanamente, sentito parlare di linguistica: secondo il linguista svizzero, il segno unisce in sé, in maniera arbitraria, il significante e il significato.

Charles Sanders Peirce, statunitense e contemporaneo di Saussure, da parte sua, formulò la teoria del “triangolo semiotico della significazione”, che detto così può anche far paura, ma in realtà Peirce non ha fatto altro che aggiungere un terzo elemento al rapporto tra significante e significato: il referente, ossia l’oggetto in sé, tangibile, materiale, il tavolo su cui pranziamo o la finestra che apriamo per fare entrare un po’ di aria.

Quando siamo di fronte a un segno, a una parola scritta o sentita pronunciare, a un cartello stradale, nella nostra testa scatta un meccanismo che, passando per significante e significato, ci conduce all’idea di tavolo o di finestra o di “dare precedenza”: un meccanismo molto simile alla traduzione, come diceva Paz, parlando dei bambini nei primi anni di vita.

Anche se siamo cresciuti e abbiamo acquisito una piena padronanza del lessico della nostra lingua madre, la traduzione come processo cognitivo continua a influire ogni giorno sulla nostra percezione del mondo circostante, come uno strumento necessario per decodificarlo al meglio e imparare a conoscerlo da nuove prospettive.

* “Aprender a hablar es aprender a traducir; cuando el niño pregunta a su madre por el significado de esta o aquella palabra, lo que realmente pide es que traduzca a su lenguaje el término desconocido. La traducción dentro de una lengua no es, en este sentido, esencialmente distinta a la traducción entre dos lenguas, y la historia de todos los pueblos repite la experiencia infantil: incluso la tribu más aislada tiene que enfrentarse, en un momento o en otro, al lenguaje de un pueblo extraño”. [Paz, Octavio. Tracuddión: literatura y literalidad, Barcellona, Tusquets, 1971

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