«Oh, tu che sei un traduttore, mi tradurresti questo testo in inglese?»
Questo è l’incipit di una tipica frase che ogni tanto ci si sente dire se si lavora come traduttori. Può sembrare una richiesta banale e innocua, ma spesso scatena nei nostri animi dei drammi interiori difficili da superare. Iperboli a parte, con una richiesta del genere, è chiaro che chi ce lo chiede ha una serie di aspettative del tipo «be’, questo è da una vita che studia inglese, ha fatto anche l’università per traduttori, lavora come traduttore otto ore al giorno, vuoi che non sappia tradurre quattro righe in inglese?». Potrà sembrare strano, ma non è così facile come si crede. C’entra il fatto che, per quanto una persona possa aver studiato una lingua e per quanto possa conoscerla a fondo, non sarà mai bravo quanto un madrelingua, uno che quella lingua l’ha appresa fin dalla nascita.
Un buon traduttore è (o dovrebbe essere) pienamente consapevole di questo limite, anche se è difficile da ammettere, soprattutto di fronte all’amico che ci chiede di tradurre quelle “quattro righe” di testo: verrebbe da spiegargli che sarebbe il caso di rivolgere questa richiesta a un inglese, che sicuramente ha una piena padronanza della lingua. Ma proprio mentre formuliamo questo pensiero, nella nostra mente riusciamo quasi a sentire la risposta del nostro amico che dice «Ma va, cosa vuoi che siano quattro righe? E poi è da una vita che studi inglese, sono sicuro che te la caverai alla grande». L’epilogo è quasi sempre suggellato da un «Sì, ok, lo traduco», seguito da interminabili ricerche su internet, blog, forum, ore spese a consultare manuali di grammatica, e tutto per decidere, per esempio, che preposizione usare con un determinato verbo.
Per capire concretamente quali rischi si corrono affidando una traduzione a un traduttore non madrelingua, non ci resta che consultare qualche traduzione in italiano non realizzata da un madrelingua. Qualche tempo fa, in un’agenzia viaggi in Messico, trovai dei dépliant informativi su alcune destinazioni turistiche del paese, con descrizioni in spagnolo e varie lingue, tra cui l’italiano, scritto in maniera alquanto discutibile.
In queste tre righe, la qualità del testo italiano non è delle migliori, ma ciò che ci colpisce di più, che stride come un gessetto sulla lavagna, è la preposizione “da”: siamo di fronte a una tipica insidia che potrebbe mettere in difficoltà (quasi) chiunque.
In questo caso, è la scelta lessicale a destare qualche dubbio sulla correttezza della traduzione: al netto dell’errore di battitura commesso sul dépliant, visitante è un participio presente che indica “colui che visita”, quindi lo si potrebbe considerare corretto; tuttavia, un italiano madrelingua difficilmente userebbe questo termine in un contesto del genere, preferendo piuttosto visitatore.
Anche il caso seguente riguarda le scelte lessicali: in linguistica, si usa il termine collocazioni per indicare combinazioni lessicali ricorrenti; in pratica, è un metro della tendenza che hanno alcune parole a comparire insieme, come succede, per esempio, con “scattare una fotografia” o “bandire un concorso”. La padronanza di una lingua si misura anche dalla capacità di rispettare queste collocazioni.
È evidente che siamo di fronte a un problema di collocazioni: incancellabile è una parola presente nel dizionario italiano, ed è un diretto traducente di imborrable (derivato dal verbo borrar, cancellare), ma è molto più frequente l’uso della collocazione “un’impronta indelebile”.
Quando frequentavo l’università, uno dei professori amava sottoporre alla classe un gioco stimolante: ci forniva un testo, in italiano e in inglese, e attraverso delle analisi minuziose, ci spingeva a dedurre quale fosse il testo originale e quale la traduzione. Ovviamente, più il traduttore era bravo, più era difficile scoprire la soluzione, perché non si lasciava condizionare dal testo originale, producendo una traduzione naturale, priva di vizi di forma. In questi dépliant, non solo ci è possibile capire quali siano i testi originali, ma anche di che nazionalità fosse il traduttore.
Sorvolando sul neologismo scultorico, in italiano la parola arte contempla solo il genere femminile, mentre in spagnolo è previsto l’uso maschile: un errore forse imperdonabile, che ci aiuta a capire quanto sia importante tradurre unicamente verso la propria lingua.