Per capirne di più, ne ho parlato con Luciano Ligabue; cioè, non proprio con lui in persona. In realtà, ho ascoltato una sua canzone. Cercavo un pezzo rock che fosse abbastanza ritmato e mi è venuto in mente It’s the End of the World as We Know It dei R.E.M. della quale Ligabue, nel 1994, ha fatto un adattamento in italiano, intitolato A che ora è la fine del mondo? (no, tranquilli, non è l’ennesimo articolo sulla traduzione nella musica o sulle cover, dato che ne ho già parlato qui e qui). La canzone originale ha un ritmo abbastanza incalzante, le parole si susseguono a velocità sostenuta e Ligabue è riuscito a riprodurne l’effetto originale in maniera quasi fedele. Dico “quasi” perché sembra che in alcuni versi, le parole italiane non si fondano del tutto con la musica. Perché ho questa impressione? A quanto emerge da un rapido tuffo tra i risultati di Google, secondo molti il motivo sarebbe da attribuirsi alla massiccia presenza di parole con una o due sillabe nella lingua inglese. Un nostro amico di Londra, in pratica, riuscirebbe benissimo a farci un intero discorso usando solo monosillabi e bisillabi, mentre per noi italiani è un po’ più complicato.

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Le canzoni rock e pop, generalmente, sono molto ritmate, con un tempo regolare in 4/4 non sincopato e accenti sul secondo e quarto movimento della battuta. Eh? Ok, ho esagerato. Ci riprovo: il ritmo delle canzoni rock e pop più semplici è un susseguirsi di “pum chà pum chà”. Ecco: questa è una battuta, e i “chà” sono gli accenti della battuta. Per dare l’impressione che le parole siano perfettamente fuse con la musica, sarebbe meglio far combaciare le sillabe accentate con gli accenti della battuta (ossia il chà); la lingua inglese, grazie all’alta presenza di parole brevi, rende tutto molto più facile. Pur ammettendo che si tratti di un fattore fondamentale, a mio avviso la semplice sincronizzazione degli accenti non è però l’unica ragione.

Immaginiamoci cantautori per un attimo: stiamo scrivendo un verso che ha spazio per otto sillabe, ma ne abbiamo già scritte sette e ce ne resta solo una libera. Se stessimo scrivendo in inglese, sarebbe più facile completare al meglio la nostra frase con una parola breve ma pregna di significato, mentre in italiano sarebbe più difficile. Per questo motivo, a volte, usiamo parole tronche, come ha fatto Francesco De Gregori (ancora lui?) in Sotto le stelle del Messico a trapanar, il cui testo è un susseguirsi di versi che terminano con un verbo all’infinito, tronco. Il cantautore, in un suo concerto, spiegò che avrebbe voluto chiamare questa canzone “Infiniti tronchi”, salvo poi rinunciare perché convinto che «qualche critico musicale l’avrebbe scambiata per una canzone su una foresta sterminata». C’è chi, come Max Pezzali, ha deciso di infilare parole inglesi e onomatopee in una canzone in italiano, tipo «Solita notte da lupi nel Bronx / nel locale stan suonando un blues degli Stones / loschi individui al bancone del bar / tutto ad un tratto la porta fa “Slam!” / i cannoni hanno fatto “Bang”». Quindi è anche una questione di spazio: scrivere canzoni in inglese è un po’come giocare a Tetris soltanto con pezzi quadrati, tutti uguali tra di loro. Ma allora un rock in italiano che suoni bene è impossibile? Non credo, dato che sono molti i cantanti e le band che ci sono riusciti egregiamente.

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C’è da dire che, analizzando la storia della musica, risulta evidente come alcune lingue siano particolarmente adatte all’impiego in certi generi musicali. E non è una coincidenza se si tratta delle lingue ufficiali dei paesi in cui questi generi sono nati o si sono sviluppati. L’italiano, per esempio, è perfetto per l’opera e il canto lirico: l’alta presenza di vocali nelle nostre parole (in media il rapporto vocali/consonanti è di 1:1) aiuta molto ad allungare i suoni e ci permette di cantare versi come All’albaaa viiiiiinceròoooooooo. L’opera lirica, non a caso, si è sviluppata principalmente in Italia. Ma potremmo continuare citando la bossa nova, sviluppatasi in Brasile, dove il portoghese, con la sua dolcezza e armoniosità, ben si sposava con le sonorità altrettanto dolci e melodiose della chitarra di Antonio Carlos Jobim o di João Gilberto. E lo stesso, quindi, si può dire del rock e del pop, generi provenienti perlopiù da paesi anglofoni e sviluppatisi in compagnia dei suoni inglesi.

Provo ad aggiungere un’altra risposta alla domanda del titolo: il motivo può nascondersi dietro un fattore culturale. Probabilmente noi italiani siamo affezionati a un’idea di canzone più poetica, più vicina ai grandi maestri del secolo scorso: non solo De André o Vecchioni, ma anche Gino Paoli, Lucio Battisti o Ivano Fossati ecc. In pratica, è come se un testo in italiano, per essere considerato accettabile e non ridicolo, debba essere il più possibile vicino ai canoni poetici definiti da questi cantanti, altrimenti si può incorrere in un senso di inferiorità che spinge a rifugiarsi nella lingua inglese, perché “suona meglio”. È, ovviamente, un concetto un po’ antiquato, ma per una band rock, cantare in italiano è una scelta spesso frutto di un’attenta ponderazione. Gli Afterhours, per esempio, iniziarono la loro carriera cantando in inglese, per poi passare all’italiano nel 1995, da Germi in poi (e meno male: chissà quanti bei testi italiani ci saremmo persi se non avessero scelto di cambiare lingua).

A proposito di lingue e generi musicali, vi siete mai chiesti come suona l’Hip Hop nel resto del mondo non anglofono? (spoiler: il coreano spacca!)

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