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Qualche giorno fa Matteo, un bambino di otto anni, e la sua maestra hanno dato vita, loro malgrado e con la complicità dell’Accademia della Crusca, al tormentone #petaloso. Nato come errore in un compito svolto dal bambino, il fascino di tale parola ha spinto la maestra a chiedere un parere alla Crusca, che ha risposto complimentandosi con Matteo e spiegando che l’introduzione di un neologismo nei dizionari è frutto di un processo tutt’altro che semplice. La storia ha avuto una eco enorme, soprattutto sui vari social network, forse perché il bambino di scuola elementare che riceve una risposta direttamente dalla Crusca ricorda un po’ la classica favola Disney in cui una ragazza qualsiasi riesce a sposare un principe; sta di fatto che ne hanno parlato tutti, dal Presidente del Consiglio alla mia vicina di casa, dalla BBC inglese a El País spagnolo. C’è chi ha cercato di far valere anche i diritti di Antonio Banderas, che in una celebre pubblicità aveva definito un biscotto “inzupposo”, con un procedimento morfologico del tutto simile a quello del piccolo Matteo. Magari stavolta, invece dell’Accademia della Crusca, si dovrà interpellare il Ministero delle pari opportunità. La storia di Matteo è resa ancora più affascinante dal tocco nostalgico e retrò della posta cartacea usata come mezzo di corrispondenza. Al di là di ciò, c’è da dire che negli ultimi anni la Crusca si è adeguata molto bene ai mezzi di comunicazione odierni, vantando un’ottima presenza sui social, rispondendo puntualmente alle domande avanzate sul suo blog e facendosi persino contagiare dalla travolgente ironia di pagine Facebook come quella di Lercio.

petaLa storia di Matteo nasce appena due settimane dopo il polverone sollevato in Francia con l’annuncio di una riforma ortografica. La riforma, in realtà, era stata già proclamata da anni, ma adesso pare che anche i libri scolastici abbiano deciso di prenderla sul serio. A questo punto, sorgono spontanee delle domande: chi introduce nuove parole, regole grammaticali e ortografiche? Sarà mica l’Accademia della Crusca a decidere? L’istituto Treccani? Tullio De Mauro? O il piccolo Matteo?

Nessuno di loro, almeno non come singoli individui. La lingua è forse il fenomeno più popolare e democratico che esista, e per questo non può essere condizionata da un’istituzione o da una persona. La lingua è del popolo, ed è il popolo stesso che crea le parole, le distrugge e le trasforma, con buona pace di Lavoisier. Come ha più volte puntualizzato la Crusca negli ultimi giorni, la funzione delle istituzioni linguistiche non è quella di inventare e poi imporre regole grammaticali, né quella di decidere improvvisamente l’adozione di una nuova parola, bensì quello di attestarne e regolarne l’uso. In pratica, il loro compito è rendere le regole di una lingua il più possibile condivise. Sono, tuttavia, i parlanti a creare inconsapevolmente parole e regole grammaticali. La parola “petaloso”, se proprio vuole entrare nei vocabolari d’uso della nostra lingua, dovrà attendere un bel po’, e soprattutto perseverare e saltare continuamente di bocca in bocca «come una freccia [che] dall’arco scocca», fin quando non verrà notata da un’istituzione prestigiosa o da un linguista chegoda di una certa importanza e che magari sia autore di qualche autorevole dizionario.

Una volta che una parola o una regola si è consolidata nell’uso ed è stata attestata dai dizionari, un’istituzione ha il potere di modificarla? La storia recente ci dice di sì. Riguardo l’ortografia, per esempio, si può citare la Rectification de l’orthographe della Académie française firmata nel 1990, le novità introdotte dalla Real Academia Española nel 2010 o il nuovo Acordo ortográfico da língua portuguesa firmato nel 1990, ma entrato definitivamente in vigore da qualche anno.

 

fumettoPiuttosto, la domanda da porci è un’altra: è giusto mettere in atto queste riforme? Si possono evitare? C’è un concetto di base da considerare: la lingua è un fenomeno in continua evoluzione, dinamico e mai statico; ti distrai un attimo e ti ritrovi davanti un neologismo. È una realtà di fatto: se così non fosse, questo articolo sarebbe scritto in latino, o forse in greco, magari in persiano. La lingua si evolve e le istituzioni provano ad andarle dietro, riuscendoci a stento, perché non si ha neanche il tempo di pubblicare un dizionario super aggiornato che l’indomani spunta il piccolo Matteo e crea proseliti con l’aggettivo “petaloso”. Noi parlanti e scriventi, poi, siamo dei pigroni: ci piace semplificare e sforzarci il meno possibile. Lo si nota analizzando gli interventi delle riforme ortografiche citate poco sopra, perché tendono a semplificare. Se ai portoghesi viene difficile scrivere “óptimo”, cambiano e scrivono “ótimo”, tanto all’orecchio importa poco. Se l’accento circonflesso è una palla al piede, i francesi lo tolgono. Se agli spagnoli non importa più fare distinzione tra l’avverbio “sólo” e l’aggettivo “solo”, tolgono l’accento. Ne consegue che queste riforme sono necessarie, perché a un certo punto alcuni cambiamenti linguistici tendono a cristallizzarsi, e allora tanto vale che vengano accettati e condivisi da tutti. Anche perché, come hanno detto recentemente in Francia, è più facile rompere il termometro che curare il malato. Ma a questo punto, le difficoltà sono evidenti: riuscire a coinvolgere un’intera comunità di parlanti ed evitare che le nuove norme creino ambiguità. Per questo motivo, l’Académie française ha limitato l’eliminazione dell’accento circonflesso solo ai casi esenti da ambiguità, evitando che “sopra” si scrivesse allo stesso modo di “sicuro” (sur/sûr).

Ed eccoci giunti all’eterno dilemma delle lingue: da una parte il protezionismo radicale e il conservatorismo estremo dei puristi-integralisti, dall’altra il progressismo più sfrenato di chi in un batter d’occhio adotta “stepchild adoption” e “whistleblower” senza chiedersi se esista un termine italiano equivalente o se sia possibile coniarne uno nuovo. Entrambi gli approcci possono risultare inadeguati: mentre il progressismo può causare una perdita di controllo sulla lingua da parte della sua comunità, l’essere puristi può diventare un’inutile perdita di tempo e forze, in quanto è del tutto inutile opporsi ai cambiamenti di una lingua, anche quando il cambiamento nasce da un errore. Andrea De Benedetti, nel suo bellissimo e interessantissimo libro La situazione è grammatica, scrive una sorta di apologia dell’errore, «Se fra trent’anni scriveremo tutti un pò anziché un po’ e qual’è anziché qual è sarà anche perché le vecchie regole erano (sono) macchinose e controintuitive, e […] bisogna avere il coraggio di dire che quello che stiamo difendendo non è l’italiano tout-court, ma una certa idea di italiano […] fondata essenzialmente sul paesaggio linguistico in cui siamo cresciuti».

È l’arte del compromesso la nostra unica ancora di salvezza. Noi parlanti continueremo a coniare nuove parole ed espressioni mentre le istituzioni e i dizionari ci daranno, col tempo, la loro approvazione, perseverando nella loro opera di salvaguardia, affinché i cambiamenti linguistici, naturali e inevitabili, rappresentino dei progressi e non dei regressi. Come scrive De Benedetti, «Commettere errori non è una colpa, ma lo diventa se non fai nulla per evitarli».

 

Andrea De Benedetti, La situazione è grammatica, Einaudi, 2015

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