araboLa settimana scorsa vi abbiamo parlato dell’australiano, la colorita variante del british english che si parla agli antipodi. Oggi restiamo in tema di localizzazione linguistica e dialetti regionali con un focus sulla lingua araba.
Ce ne parla Giulia Guida, neolaureata in relazioni internazionali per l’Africa e l’Asia e nostra ospite su Euroblogos per questa settimana. Giulia ci chiarirà le idee sull’arabo e sulle sue variazioni linguistiche.

Quasi per gioco, cinque anni fa ho cominciato a studiare arabo all’università, spinta dalla curiosità di approfondire la mia conoscenza del mondo arabo-islamico, troppo spesso rappresentato dai media occidentali attraverso stereotipi ed etichette fuorvianti. E quale miglior modo di approcciare una cultura straniera dello studiarne la lingua? Se non fosse che, contrariamente alle lingue nazionali con cui siamo abituati a interfacciarci, come l’inglese o il francese, l’arabo è una lingua trans-nazionale, parlata in oltre venti paesi da circa 250 milioni di persone. Considerando il grado in cui l’evoluzione di una lingua è influenzata dagli sviluppi storici e dalle peculiarità geografiche che caratterizzano l’area in cui viene scritta e parlata, è naturale che l’arabo non si sia strutturato come un sistema linguistico uniforme, e che si presenti piuttosto come un insieme eterogeneo di varietà linguistiche locali e regionali comprese in un sistema di diglossia.

 

Il concetto della diglossia, introdotto dallo studioso Charles Ferguson in un articolo pubblicato nel 1959 per il giornale Word, prevede la compresenza di due lingue che sono differenziate l’una dall’altra sul piano funzionale.

Gli studiosi di linguistica araba generalmente identificano tre livelli di lingua: l’arabo classico (fuṣḥā, la lingua pura), lo standard moderno e i dialetti (āmmiyya‘, la lingua popolare), che si classificano in dialetti dei gruppi nomadi e di quelli sedentari, a loro volta suddivisi in urbani e rurali.

Mentre il primo livello indica la lingua letteraria, impiegata nel Corano e nella poesia pre-islamica – in particolar modo nella forma poetica della qasīda, l’arabo medio standard viene utilizzato come lingua di comunicazione in contesti formali, in occasione di conferenze, discorsi, nei giornali così come nei notiziari. All’estremo di questo continuum si colloca il dialetto, che esiste quasi esclusivamente in forma orale, viene utilizzato in contesti informali e familiari e per una buona percentuale di arabofoni rappresenta la vera lingua madre.

L’arabo standard, infatti, si apprende a posteriori nelle scuole e nonostante la maggior parte degli arabi ne abbia una conoscenza passiva, non tutti sono in grado di parlarlo e scriverlo fluentemente. Ciascuno dei dialetti arabi presenta la fusione di una serie di elementi linguistici, presi in prestito sia dalle lingue pre-esistenti al processo di arabizzazione (basti pensare all’eredità della cultura berbera in Marocco) sia dalle lingue europee che durante la dominazione coloniale hanno costituito un importante fattore di contaminazione delle varianti dialettali.
Un esempio significativo viene fornito dall’arabo maghrebino, le cui varianti sono correntemente diffuse in Tunisia, Algeria e Marocco. Compresi nel quadro della francofonia in Nord Africa, i dialetti di questi paesi sono contraddistinti da numerosissimi prestiti dal francese, tanto che nelle conversazioni informali capita spesso di assistere a un fenomeno di code switching, in cui gli interlocutori passano con facilità da una lingua all’altra o da una variante all’altra.

Tuttavia, mentre i dialetti maghrebini hanno molti elementi in comune – come la pronuncia della gutturale “qaf” che viene omessa nei dialetti levantini o l’impiego della lettera k come prefisso per tutte le persone dei verbi – varianti parlate in paesi geograficamente distanti a volte risultano incomprensibili per arabofoni di nazionalità diverse. Per questo, in molte circostanze si ricorre alla cosiddetta lingua mediana (al- wusṭā), basata su una struttura grammaticale e sintattica simile a quelle dell’arabo standard, ma con particolarità fonetiche proprie della singola variante. Inoltre, grazie all’ampia diffusione delle musalsalat (le famose telenovelas), dei programmi radiofonici e delle produzioni cinematografiche egiziane in Medio Oriente e in altre regioni del mondo arabo, la conoscenza del dialetto egiziano ha cominciato a espandersi anche tra gli arabofoni residenti al di fuori dell’Egitto e ad acquisire lo status di lingua di comunicazione.

Infine, nonostante l’impiego del dialetto continui a essere limitato prevalentemente al parlato, negli ultimi anni si sta assistendo a una crescente compenetrazione dell’arabo standard con le varianti dialettali negli annunci pubblicitari, nei prodotti editoriali – in particolar modo fumetti e graphic novel – oltre che nei blog e sui social network, che rappresentano le piattaforme ideali per valutare le evoluzioni della lingua determinate dallo sviluppo di nuove tecnologie.

E per concludere, per chi mastica un po’ l’arabo e ha in mente di soggiornare a Il Cairo nel prossimo futuro, “Taxi” di Khālid Al-Khamissi – primo libro scritto per tre quarti in dialetto egiziano – e tutta la letteratura di ʿAlāʾ al-Aswānī vi potranno accompagnare a zonzo per le strade della città, facendovi immergere in un coloratissimo magma di suoni e profumi e in una lingua che contrariamente alla lingua da salotti buoni – come scrive al-Khamissi – “è speciale, rude, vitale e schietta”.

 

Giulia Guida

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