Questa rubrica è un tributo alla pluralità linguistica dell’Italia del XXI secolo, allo scopo di dimostrare il valore culturale di ogni singolo dialetto della nostra Penisola.
Da questa settimana, ogni lunedì posteremo un dialettismo o dialettalismo, ossia una parola (ma anche locuzione, forma e costrutto) entrata nell’italiano comune – più o meno formale – da un dialetto. La nostra selezione trae spunto da tutte (o quasi) le regioni d’Italia, scegliendo fra diversi ambiti semantici (per es. la gastronomia) e grammaticali (sostantivi, verbi o aggettivi) per mettere in luce la ricchezza culturale della/e nostra/e lingua/e di origine.
Mai come oggi, infatti, i linguisti concordano sull’importanza di questo background e sul rischio che possa andare perduto a opera del processo di alfabetizzazione avviato dopo l’Unità d’Italia e ancora, per certi versi, presente nei retaggi dell’approccio formalistico con cui siamo cresciuti.
Nelle parole di Balboni, “oggi, riprendendo il concetto romantico di lingua del popolo, spontanea, vera, ecologica, tendiamo a considerare l’abbandono dei dialetti come un crimine culturale” (2009: 7); tuttavia, il processo di italianizzazione per legge traeva giustificazione dal fatto che “l’ampio uso dei dialetti […] non aveva radice in ciò che di vitale poteva esserci stato nella storia italiana, ma, al contrario, era la conseguenza del ristagno plurisecolare della vita economica, sociale e intellettuale del paese” (De Mauro, 1963: 16). Non solo la politica attuata nei confronti della pluralità linguistica perseguì l’obiettivo di diffondere l’italofonia a scapito della dialettofonia, ma privò il dialetto di prestigio. Una tendenza, questa, che subì un inasprimento durante il periodo fascista.
Solo alla fine degli anni Sessanta il fermento della riflessione glottodidattica ispirata alle lingue straniere portò gli studiosi italiani a introdurre i concetti di dimensione socioculturale, funzionale e comunicativa legati alla lingua. Con l’avvento dell’educazione linguistica, intesa come didattica democratica e pragmatica della lingua, l’apprendimento/insegnamento linguistico viene inteso in modo più ampio e spazia dalla lingua materna e/o nazionale alle lingue seconde, straniere, classiche ed etniche, con una conseguente rivalutazione dei dialetti (la cui nobilitazione avviene anche a opera del cinema e della letteratura neorealisti) e la nascita della “Rivista italiana di dialettologia” nel 1977.
La rubrica “Dal dialetto all’italiano” non affronta, invece, il tema dei regionalismi che, nell’evoluzione dell’italiano, sono considerati a uno stadio precedente rispetto ai dialett(al)ismi. Parole come cocomero o melone d’acqua (varianti rispettivamente toscana e meridionale dello standard “anguria”), mitile (in luogo di “cozza”) e schiscetta sono esempi di regionalismi (e, nei primi due casi, di geosinonimi) marcati in diatopia, ossia usati attivamente in determinate (macro)regioni.
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