In casi come questi in cui si affrontano argomenti di una certa delicatezza, c’è una frase utile da tenere sempre a mente: la traduzione comporta inevitabilmente una perdita. E ci tornerà utile anche in questo caso in cui proveremo a immergerci all’interno di una discussione linguistica che è una spirale vorticosa capace di inghiottirci inesorabilmente, un po’ come la discussione (visto che siamo in tema), costantemente al centro di accesi dibattiti in Sicilia, sul genere grammaticale di arancino/arancina; (a tal proposito, Camilleri sceglie il maschile nel suo Gli arancini di Montalbano, in barba a quanto usano dire i suoi compaesani empedoclini, “i marinisi”).

La traduzione, dunque, avrà sempre qualcosa in meno rispetto al testo originale, che è per sua natura unico ed eterno. La traduzione perde (o modifica) in talmente tanti modi che un certo Antoine Berman, un teorico della traduzione, ha identificato ben 13 “tendenze deformanti” della traduzione, che non elencherò perché, ai fini di questo articolo, ci basterà ricordarne due: la distruzione dei reticoli linguistici vernacolari e la cancellazione della sovrapposizione di lingue.
camilleriBasterebbe leggere anche una sola pagina, ma che dico?, anche qualche riga di Camilleri per capire che la sua prosa è proprio particolare: la lingua di Dante a noi tanto cara viene colorata e arricchita da strutture sintattiche e un lessico tipici del dialetto siciliano, in una maniera talmente evidente che solo chi non apre un suo libro non la nota. In un interessantissimo libro-dialogo con Tullio De Mauro (La lingua batte dove il dente duole, 2013, Laterza), Camilleri dice che «il dialetto è sempre la lingua degli affetti, un fatto confidenziale, intimo, familiare. […] Mi capita di usare parole dialettali che esprimono compiutamente, rotondamente, come un sasso, quello che io volevo dire, e non trovo l’equivalente nella lingua italiana». Come ti capisco, Andrea, e scusa se ti do del tu, sapessi quante volte!

Il risultato è una prosa divertente e ironica, una danza squisita tra la lingua imparata a scuola e quella imparata a casa dei nonni. Eccone un esempio:

Arrivò con tanticchia di ritardo sul previsto perché prima di nèsciri aveva avuto una bella pensata: riempire un thermos di caffè bollente. Assittato allato al commissario dintra la macchina, Orazio Genco se ne scolò un intero bicchiere di plastica. (Gli arancini di Montalbano, 1999, Mondadori).

Certo, direte voi, per te è facile: sei siciliano e capisci quello che c’è scritto. Come darvi torto: non poche volte mi è capitato di ricevere richieste d’aiuto da chi non conosceva il dialetto siciliano ma voleva leggere Camilleri e si imbatteva in termini di interpretazione più o meno facile, come càvucio (calcio), oppure termini che non sapresti da dove iniziare per decifrarli, come inzertare (indovinare, giustappunto) o veri e propri falsi amici, come spiare (che non vuol dire spiare, bensì chiedere). In effetti, per un siciliano la prosa di Camilleri risulta molto divertente e piacevole, per un non siciliano potrebbe essere più faticosa, ostica e per qualcuno anche fastidiosa.

Ma consolatevi, c’è chi sta peggio: pensate ai traduttori che devono rendere la prosa camilleriana all’estero. C’è chi, come Serge Quadruppani, traduttore parigino, si è impegnato in quest’ardimentosa impresa, ottenendo anche un discreto risultato (stando anche a quanto dicono le vendite in Francia). Quadruppani ha deciso di attingere al bacino linguistico della Francia meridionale per rendere al meglio la prosa dello scrittore empedoclino. «Ho usato il francese normale per tradurre l’italiano normale, mentre per l’italiano-siciliano di Camilleri ho preso in prestito parole ed espressioni dialettali al sud della Francia». Pur ammettendo i e con Camilleri come la mettiamo____limiti del francese del sud che, a quanto afferma lui stesso, non ha la stessa ricchezza di vocabolario del siciliano, ricorre, per esempio, a vocaboli come minou per tradurre picciriddro, il bambino secondo Camilleri. Ma c’è da dire che, a tratti, Quadruppani sembra forzare un po’ troppo la prosa, come quando, per rendere la tipica espressione “Buongiorno, il commissario Montalbano sono”, scrive “Bonjour. Le commissaire Montalbano, je suis”. In effetti, il senso di straniamento dovuto a questa struttura sintattica invertita è lo stesso nei lettori francesi e italiani. Tuttavia, per un italiano è facile ricondurre questo fenomeno alla tipica sintassi siciliana che prevede, talvolta, l’uso del verbo alla fine della frase, mentre un francese si potrebbe trovare semplicemente disorientato, senza capire il motivo di quel verbo messo lì.

C’è da dire, tornando alla questione della ricchezza dei vocaboli dialettali, che l’Italia sta insieme da 150 anni appena, che è un tempo relativamente breve se si considera la storia delle unificazioni degli altri paesi che ci stanno attorno. Anche per questo motivo, i dialetti dello stivale sono ancora vivi, che godano di ottima salute o meno, e dopo essere sopravvissuti alle restrizioni linguistiche del fascismo, oggi vengono parlati correntemente da molte persone, a differenza di quanto succede in altri paesi.

Un esempio molto interessante ci viene fornito dalle traduzioni in spagnolo: la tendenza generale è stata quella di tradurre in castigliano standard, senza variazioni dialettali, anche se c’è un’eccezione che vale la pena analizzare. Ne Il birraio di Preston, romanzo animato da una ricca moltitudine di personaggi che parlano vari dialetti italiani (romano, milanese, siciliano), il personaggio del prefetto Bortuzzi parla con accento e fonetica fiorentini, e lo si può evincere dal modo originale in cui viene resa la sua voce: «A Vigàta, hosa o non hosa, devono fare quello che ordino io, quello che diho e homando io. Il birraio di Preston sarà rappresentato e avrà il successo che merita». Lo spagnolo suona più o meno così: «En Vigàta, zea abzurdo o no, deben hacer lo que yo diga, lo que yo ordene y mande. Il birraio di Preston zerá reprezentada y tendrá el ézito que merece».

La strategia è stata quella di scrivere sostituendo la s con la z, imitando la pronuncia del ceceo, fenomeno fonetico presente soprattutto in Andalusia, nella Spagna del sud, che consiste nell’assimilare il suono della s e quello della z (θ ‒ fricativa dentale sorda) a uno stesso suono, simile alla θ. È, in effetti, al pari delle c aspirate fiorentine, una variante fonetica regionale, anche se in spagnolo porta con sé una connotazione negativa, caratterizzante una persona di scarsa istruzione e basso ceto sociale, connotazione che, però, non si addice a un personaggio come il prefetto Bortuzzi.

Il traduttore catalano di questo stesso romanzo, invece, usa tutta una varietà di dialetti provenienti da diverse zone della Catalogna, e così il siciliano diventa dialetto maiorchino (dell’isola di Maiorca), il fiorentino diventa leridano (della città di Lérida), il dialetto capitolino diventa il dialetto di Barcellona e così via. Nella nota del traduttore, Pau Vidal afferma di aver agito così per poter dare al lettore catalano la possibilità di venire a contatto con la ricchezza dialettale italiana. Ammetto la mia perplessità riguardo a queste parole: se lo scopo è questo, allora perché usare dialetti catalani? È chiaro che la percezione delle varietà linguistiche che un lettore italiano riscontra in Camilleri viene così suscitata anche nel lettore catalano, ma siamo sicuri che questo non comporti delle conseguenze sulla coerenza del rapporto ‒ in Camilleri particolarmente forte ‒ tra romanzo, scrittore e luogo d’ambientazione del romanzo? Quello che voglio dire è: visto che i personaggi camilleriani sono strettamente legati al luogo d’ambientazione, al territorio siciliano, al dialetto e a tutto ciò che è assimilabile alla cultura del luogo, non sarebbe strano che questi stessi personaggi parlassero maiorchino o marsigliese?

Citando Camilleri: «Serge (Quadruppani, n.d.r.) diceva che sarebbe stato facile farlo in marsigliese, allora tu dici, ma perché in marsigliese se è ambientato a Vigata? Quasi tutti i traduttori hanno scartato questo tipo di possibilità di traduzione ricorrendo a parlate del Sud dei vari Paesi».

Per capire meglio, facciamo l’esempio inverso e, senza andare troppo lontano, prendiamo in considerazione i romanzi di Manuel Vázquez Montalbán, padre del detective Pepe Carvalho (a proposito, il nome del personaggio di Salvo Montalbano è un tributo di Camilleri all’amico, ormai scomparso, Montalbán). Lo scrittore catalano decora la sua prosa con dialoghi, espressioni idiomatiche e nomi estrapolati dalla cultura catalana. Nelle traduzioni italiane di Hado Lyria, gli stralci di catalano non sono tradotti ma trascritti in corsivo e accompagnati da una nota che ne illustri la traduzione italiana. Immaginiamoci se queste parole e questi dialoghi in catalano fossero tradotti in dialetto siciliano, o toscano, o romano: di certo ci lascerebbero perplessi.

e con Camilleri come la mettiamoQuindi pare che, scartando l’ipotesi della resa dei dialetti con altri dialetti della cultura d’arrivo di una traduzione, non ci resti che rinunciare a qualsiasi resa del plurilinguismo camilleriano nella traduzione. Tuttavia, è a questo punto che viene in nostro soccorso il principio delle perdite e delle compensazioni, così come illustrato dal buon Umberto Eco, nel suo Dire quasi la stessa cosa (Bompiani, 2003). Il principio è semplice: qualora siano inevitabili delle perdite durante la traduzione, si può intervenire compensando la perdita e ricreando, in maniera diversa, un effetto quanto più simile a quello presente nel testo originale. È così che molti traduttori di altre lingue, di fronte all’inevitabile appiattimento delle loro traduzioni di Camilleri, hanno deciso quantomeno di inserire una componente colloquiale nei dialoghi dei personaggi, o di ricorrere a termini aulici e spesso desueti e arcaici, giocando sulle variazioni di registro per rendere giustizia alle caratterizzazioni linguistiche create da Camilleri: è il caso delle traduzioni in olandese, svedese, portoghese e tedesco, per citarne alcune.

Prima di chiudere, c’è da ricordare che le scelte dei traduttori non sono sempre libere e autonome, ma rispondono, il più delle volte, a esigenze imposte dai propri editori: sempre più spesso, infatti, gli editori puntano su un tipo di linguaggio di più semplice fruizione, che più si avvicini al concetto di libro come materiale di consumo rapido.

Nel caso in cui abbiate voglia di cimentarvi nella lettura di Camilleri, ma la sua varietà linguistica vi spaventi, vi segnalo un utilissimo dizionazio italiano-camilleriano disponibile online: https://www.vigata.org/dizionario/camilleri_linguaggio.html

Ma alla fine l’abbiamo capito se si dice arancino o arancina?

 

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