tempicambiati
Sì, esatto, esiste una storia della traduzione; i metodi di traduzione e il pensiero traduttologico sono cambiati nel corso dei secoli, hanno attraversato epoche diverse, hanno ricevuto l’apporto di vari traduttori e teorici della traduzione e sono arrivati fino ai giorni nostri.

Insomma, diciamo che ne è passata di acqua sotto i ponti da quando, ai tempi dell’antica Roma, impegnata a imitare e quindi tradurre i modelli greci, un certo Marco Tullio Cicerone, traducendo in latino discorsi di oratori greci, scelse di tradurre (come ci spiega in De optimo genere oratorum) «non da interprete, ma da oratore. […] Non ho ritenuto necessario tradurre parola per parola, ma ho conservato il modo e la forza di tutte le parole». Se avesse tradotto parola per parola, il risultato avrebbe annoiato il suo uditorio; aveva capito che bisognava conferire al testo la stessa “forza” persuasiva che veniva percepita da un uditorio di greci.

Poi ci fu San Gerolamo, che nel V secolo tradusse la Bibbia dal greco e dall’ebraico al latino (non per altro è considerato il santo protettore dei traduttori), e fu oggetto di accuse per aver tradotto concentrandosi sulla resa del senso e l’eleganza linguistica della traduzione («non verbum de verbo, sed sensum exprimere de sensu») piuttosto che tradurre parola per parola, considerando quest’ultimo metodo nient’altro che una «brutta imitazione». Vi lavorò su per 23 anni e si guadagnò delle accuse di eresia; come sono cambiati i tempi!
Giusto qualche annetto dopo, nel 1530, ci fu Martin Lutero, anche lui impegnato a tradurre la Bibbia, ma in tedesco. La portata della sua opera è passata alla storia: grazie al suo approccio traduttivo, la Bibbia poteva essere letta anche dal popolo (anche se, ovviamente, la percentuale di alfabetizzati era sempre bassa). Abbandonò il latino e scelse di usare un tedesco molto più accessibile, la lingua che parlava la «madre in casa, i bambini in strada, il cittadino al mercato». Le copie della sua traduzione andarono a ruba e un libro di quel calibro diventò un best seller; come sono cambiati i tempi!

Poi vi furono i francesi del XVII secolo con le belles infidèles, in cui si curava l’eleganza stilistica della traduzione più di quanto si curasse la fedeltà all’originale, confermando il loro amore spasmodico per la lingua francese (ecco, qui i tempi non sono cambiati più di tanto); poi arrivò l’alba del ‘900 e il buongiorno ce lo diede, tra gli altri, Walter Benjamin, dicendo che «ciò che conta è l’essenza dell’opera, e la traduzione ha il compito di cogliere questa essenza e di farla sopravvivere», che «la fedeltà della parola singola non può quasi mai riprodurre pienamente il senso che essa ha nell’originale» e che «la vera traduzione è trasparente, non copre l’originale, non gli fa ombra».

E finalmente si arriva agli anni ‘50/’60, con i Translation Studies, e la definizione delle traduzioni source-oriented o target-oriented. Le prime si concentrano sul testo di partenza, senza considerare la ricezione nella cultura di arrivo, mentre le ultime, e qui siamo già nella seconda metà del secolo scorso con i cultural studies, si concentrano molto di più sulla cultura d’arrivo e sul modo in cui una cultura possa recepire un testo proveniente da un’altra cultura; il traduttore diventa così anche un “mediatore culturale”. Nel 1995, Lawrence Venuti, nel suo The Translator’s Invisibility: A History of Translation, ha teorizzato le traduzioni estranianti (foreignization) e addomesticanti (domestication): le prime mantengono l’elemento “estraneo” nella traduzione, le ultime lo appiattiscono, lo neutralizzano, conformandolo alla cultura di ricezione.

Per capirci meglio: immaginiamo che un autore indiano, magari di Nuova Delhi, in un suo romanzo scriva una frase tipo “Ho incontrato una scimmia mentre passeggiavo per strada”; dato che lì è abbastanza normale incontrare scimmie per strada, un lettore indiano penserebbe “Ah, ok, niente di strano”. E se traduciamo la frase e pubblichiamo il romanzo in Italia? La teoria addomesticante sostituirebbe la scimmia con un cane o un gatto, così da operare una mediazione culturale e creare nel lettore italiano lo stesso effetto di “normalità” suscitato nel lettore indiano. La teoria estraniante conserverebbe la scimmia, inducendo il lettore italiano a pensare “Oh, che strano! Una scimmia per strada”; ma con un po’ di curiosità e intuito, scoprirà che tutto ciò è abbastanza comune a Nuova Delhi.
La prassi traduttiva attuale è un pendolo che, a seconda dei casi, oscilla fra foreignization e domestication. E per fortuna, quando è possibile, il testo conserva l’elemento di estraneità: una traduzione è utile anche perché ci permette di venire a contatto con culture diverse, confrontarci con nuovi orizzonti, scoprirne certi aspetti, pur non conoscendo la lingua del posto. Inoltre non corriamo il pericolo di imbatterci nella tendenza, viva fino a qualche decennio fa, di tradurre i nomi propri dei personaggi di un romanzo, anche quando la loro onomastica non fosse rilevante da un punto di vista connotativo; persino Mozart non si è potuto sottrarre, dato c’era chi soleva chiamarlo Volfango Amedeo (come tuttora riportato, per esempio, su una targa nel convento della Chiesa di san Marco a Milano, dove il compositore soggiornò).

Come diceva il caro Antonio Tabucchi, la traduzione non è l’opera, è un viaggio verso l’opera. E verso la cultura, mi permetto di aggiungere.

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